Tesina: La comunicazione: I persuasori occulti

Approfondimento

 

In una società e in un sistema economico fondati sul consumo è necessario accelerare la sostituzione di alcuni prodotti al di là del loro effettivo deterioramento, e indurre l’acquisto di altri a prescindere dalla loro utilità dichiarata.

In questo brano, tratto dal libro I persuasori occulti, il sociologo americano Vance Packard descrive, con acume ed ironia e attraverso numerosi esempi, un insieme di strategie pubblicitarie che non si basano sulle caratteristiche dei prodotti promossi ma sui bisogni e le motivazioni profonde dei potenziali acquirenti. I persuasori occulti, pubblicato nel 1957, suscitando grande scalpore e vivaci reazioni, coglieva precocemente alcuni meccanismi tipici della società contemporanea, che sarebbero stati comunemente riconosciuti e fatti oggetto di analisi più rigorose e raffinate.

Mentre erano alla ricerca di nuovi stimoli psicologici dei quali dotare i prodotti, potenziandone così la forza di attrazione, gli analisti s’imbatterono, e subito ne trassero preziose indicazioni, in quella regione dell’inconscio in cui si agitano i nostri bisogni, desideri, aspirazioni e nostalgie. Non appena il bisogno era identificato, e riconosciuto impellente, si prometteva al pubblico che l’unico modo di soddisfano era di acquistare questo o quel prodotto, dai condizionatori d’aria, alle miscele per dolci, ai motoscafi. Prenderemo qui in esame alcune tra le più pittoresche applicazioni pubblicitarie a otto nostri bisogni segreti.


La sicurezza emotiva

L’agenzia pubblicitaria Weiss e Geller cominciò a nutrire dei dubbi circa le ragioni convenzionali con le quali il pubblico giustifica l’acquisto di un frigorifero domestico. In molti casi, ad esempio, il frigorifero era un vero e proprio assurdo economico: sommando la spesa iniziale per l’acquisto, il maggior consumo di elettricità, e la percentuale di avanzi dimenticati nel frigorifero che prima o poi dovevano essere gettati via, il costo del cibo “in freddo” realmente consumato dalla famiglia veniva a risultare altissimo.
Incuriosita, l’agenzia condusse un’analisi psicologica “pilota”. Gli investigatori giudicarono molto significativo il fatto che la vera, grande diffusione dei frigoriferi fosse cominciata subito dopo la seconda guerra mondiale, durante la quale molte famiglie erano vissute in uno stato di angosciosa incertezza non soltanto per il loro pane quotidiano ma per la loro stessa esistenza. Tutti costoro avevano cominciato a pensare con nostalgia a precedenti periodi della propria vita in cui tutto appariva stabile e sicuro, e tale rimpianto li condusse via via inconsciamente alle soglie dell’infanzia, all’epoca in cui potevano fare assegnamento sulla madre e l’affetto era strettamente connesso alla nutrizione. I ricercatori conclusero: “Il frigorifero rappresenta per molti la garanzia che in casa c’è sempre del cibo, e la presenza del cibo nella casa rappresenta a sua volta stabilità, sicurezza e affetto”. Coloro che si sentono insicuri, affermava la relazione, hanno bisogno di tenere in casa più cibo di quanto possano mangiare. L’agenzia consigliò quindi ai fabbricanti di frigoriferi di tener conto di questo curioso fattore nelle campagne pubblicitarie.
La stessa agenzia scoprì che il condizionatore d’aria è anch’esso un simbolo di sicurezza, e come tale sfruttabile a fini commerciali. Molte persone, a quanto sembra, amano sentirsi protette e raccolte durante la notte, e tengono abitualmente le finestre chiuse per impedire appunto che qualcosa di “minaccioso” possa sorprenderle nel sonno. Costoro aspirerebbero inconsciamente a un ritorno nel grembo materno. […]
Il dottor Dichter fece notare ai fabbricanti di arnesi e strumenti di lavoro per “dilettanti” (per quegli uomini, cioè, che amano trafficare in casa la domenica) quanto fosse facile e redditizio vendere, insieme a tali aggeggi, anche un senso di sicurezza. Per citare le sue parole “un uomo tutto concentrato sui suoi arnesi o sui suoi ferri vive in un mondo chiuso. È libero dalla tensione che creano i rapporti col prossimo. È impegnato in un pacifico dialogo con se stesso”.
A un’esposizione di mobili per bambini nel 1956 (la National Baby and Children’s Show) venne presentato un curioso “pezzo” che combinava seggiolino, vasca da bagno e vasetto. Il presidente della fabbrica che lo aveva costruito disse che era stato studiato in modo da dare al bambino una “casa” e un “senso di sicurezza”. E aggiunse: “Al punto in cui sono arrivate le cose, gli industriali rassomigliano ogni giorno di più a degli psicologi“.


Stima e considerazione

Verso il 1955 la “Chicago Tribune” volle studiare in profondità il mercato del sapone e dei detersivi: si trattava di scoprire perché questi prodotti non fossero riusciti, a differenza di molti altri, a creare attaccamenti durevoli. Le donne di casa hanno infatti tendenza a passare di continuo da una marca all’altra. Era, indubbiamente, uno stato di cose deplorevole, ma la “Chicago Tribune” giunse alla conclusione che i fabbricanti stessi ne portavano la responsabilità. La loro pubblicità era fuori strada e fuori moda. “Essa ignora completamente il fatto – notava il giornale – che le donne si servono dei loro prodotti per altre ragioni, oltre che per essere pulite, proteggersi le mani e tener la casa in ordine”. L’accorto fabbricante di sapone, faceva osservare la relazione, deve invece rendersi conto che, quando lavano o puliscono, molte donne si sentono impegnate in una faticaccia per la quale non otterranno né compenso né riconoscimento morale. Occorre quindi alimentare il loro senso di “stima e di merito”, e
impostare la “pubblicità sulla nobiltà e l’importanza dei lavori domestici – senza pesantezza e goffaggine, o con lodi troppo dirette e imbarazzanti – ma con sottintesi e abili perifrasi che facciano apparire quanto sia meritorio ed essenziale il compito di una massaia impegnata in una attività considerata spesso… come una faticaccia”.[. ..]


Le esigenze dell’ego

Si tratta, in un certo senso, di un problema affine a quello posto dal bisogno di stima e riconoscimento. […]
È cosa generalmente ammessa dalle massaie che preparare un dolce costituisce uno dei lavori domestici più gradevoli. Vani psicologi vennero incaricati di studiare il fenomeno e trarne le conseguenze pubblicitarie. James Vicary prese in esame il valore simbolico dei dolci e giunse alla conclusione che “cuocere una torta e un azione sostitutiva del parto”: quando una donna prepara una tonta per la famiglia, intende offrirle, simbolicamente, un nuovo figlio. A conferma della sua interpretazione Vicary citava molti antichi proverbi e detti scherzosi concernenti le torte: la credenza secondo la quale una sposa cui la torta non riesce non è ancora in grado di mettere al mondo un figlio; la facezia nuziale che parla di “mettere la torta in forno”; la leggenda della torta che non può riuscire se la cuoca è nel ciclo mestruale. Anche una agenzia di consulenza psicologica di Chicago studiò il valore simbolico delle torte e accertò che “per le donne fare un dolce equivale a far dono di sé alla loro famiglia”, che è in sostanza la stessa cosa.
I preparati “istantanei” per la tavola – e in special modo le miscele per dolci – si trovarono ben presto alle prese con questo problema dell’istinto creativo femminile e incontrarono una resistenza assai più forte di quanto gli industriali del ramo, personaggi eminentemente razionali, si fossero aspettata. L’ostacolo principale era rappresentato dal senso di colpa delle clienti, ostili all’impiego di preparati che minacciavano di privarle di una tradizionale fonte di elogi e rischiavano di farle passare per cattive massaie.
Quando comparvero sul mercato i preparati istantanei per dolci, le istruzioni per l’uso raccomandavano: “Non aggiungere latte, soltanto acqua”. E tuttavia molte donne si ostinavano ad aggiungere latte per mettere il loro “tocco creativo” nella torta o ciambella prefabbricata, che in tal modo, sovraccarica di calcio, non riusciva: la colpa, naturalmente, era sempre del preparato. Oppure le istruzioni dicevano: “Non aggiungere uova”. Uova e latte in polvere erano infatti già contenute nella miscela. Ma le massaie intervistate dagli psicologi rispondevano: “Che razza di dolce è se basta aggiungere un po’ d’acqua di rubinetto! “. Varie agenzie affrontarono il problema giungendo tutte alla stessa conclusione: i fabbricanti dovevano procurare che alla cuoca restasse sempre qualcosa da fare. Così, ad esempio, il dottor Dichter consigliò alla General Mills di proclamare che la massaia e la polvere Bisquick, insieme, potevano riuscire. E le istruzioni per l’uso della miscela Swansdown cominciavano con le fatidiche parole, scritte a caratteri cubitali: “Si aggiungano uova fresche…”. Alcuni preparati raccomandano addirittura di aggiungere uova e latte. […]


Senso di potenza

Il fascino che esercita sugli americani qualsiasi prodotto che sembri offrire un aumento della potenza personale rappresenta per la pubblicità un prezioso campo di sfruttamento. Da anni le fabbriche di automobili fanno a gara nel costruire motori sempre più potenti. Dopo una inchiesta psichiatrica, una agenzia pubblicitaria del Middle West giunse alla conclusione che uno dei maggiori incentivi all’acquisto ogni due anni circa di una macchina nuova, lucente e più potente, è costituito dal fatto che “la nuova automobile dà all’acquirente una conferma della sua potenza personale, e lo rassicura circa la sua virilità: si tratta di un’esigenza emozionale che la macchina vecchia non bastava più a soddisfare”.
Questo tipo di richiamo pubblicitario ha tuttavia un inconveniente: l’Istituto per la ricerca motivazionale accertò che l’acquirente di una macchina nuova prova spesso un senso di colpa per essersi lasciato sedurre da un potentissimo motore di cui, in realtà, non ha bisogno. Gli si deve perciò offrire un pretesto razionale col quale mascherare la irrazionalità dei suoi desideri segreti. Una eccellente soluzione sta, secondo l’istituto, nel mantenere il tema della potenza ma sottolineando al tempo stesso che la conseguente, meravigliosa “ripresa” di cui si trova dotata la macchina garantisce “un margine supplementare di sicurezza in caso di emergenza”. Ciò basta, afferma uno dei direttori dell’istituto, a dare al cliente quella “illusoria razionalità” di cui ha bisogno.
L’agenzia pubblicitaria McCann-Enickson condusse per la benzina Esso una indagine sui moventi dei consumatori, al fine di allargare la clientela della società. Ne risultò che la parola “potenza” ha un valore quasi magico. Dopo molte interviste in profondità con i clienti, l’agenzia elaborò una strategia pubblicitaria imperniata su due sole parole, scritte a tutte maiuscole: POTENZA TOTALE. […]


Il bisogno di immortalità

La speculazione più ardita e stupefacente sui nostri bisogni segreti è forse quella che venne proposta a un congresso di assicuratori sulla vita tenutosi a Omaha nell’aprile 1955. La presidenza aveva chiesto a Edward Weiss, direttore della Weiss e Geller, di illustrare ai convenuti, membri della North Central Life Advertisers Association, come dare maggior forza di penetrazione ai loro messaggi in favore delle assicurazioni a vita. Nella sua relazione, intitolata Atteggiamenti inconsci nei confronti dell’assicurazione a vita, Weiss si basò su un sondaggio in profondità condotto da alcuni psicologi. […]
La relazione era centrata sulla vendita dell’assicurazione a vita al maschio, che, nella maggior parte delle famiglie, è “quello che porta a casa i soldi” e la cui vita va, per conseguenza, assicurata. Weiss criticò l’orientamento pubblicitario di quasi tutte le compagnie d’assicurazione, le quali sembrano ignorare proprio il capofamiglia, vale a dire colui che, in definitiva, decide se firmare o meno il contratto. Bastava scorrere giornali e riviste, affermò Weiss, per vedere che slogan e pagine pubblicitarie o glorificavano la tenacia e la sollecitudine dell’assicuratore, oppure si soffermavano sulla comoda esistenza che la famiglia conduceva dopo la morte del suo capo grazie all’assicurazione. L’una e l’altra linea, disse il dottor Weiss, sono completamente sbagliate. È vero, egli ammise, che in taluni casi il capofamiglia viene lodato per la sua preveggenza, ma tuttavia appare sempre come un personaggio ormai morto e sepolto.
Ciò che veramente attrae un uomo, nell’assicurazione a vita; accertarono gli psicologi, è l’implicita “prospettiva di immortalità attraverso il perpetuarsi della sua influenza: non è tanto la sua morte fisica, infatti, che gli riesce intollerabile,
quanto l’idea della completa obliterazione”. È questo un pensiero che non può neppur concepire. Weiss riferì che, discutendo sul merito dell’assicurazione a vita a un livello razionale e formale, gli intervistati esprimevano, beninteso, il loro vivo desiderio di proteggere i loro cari in caso di una “disgrazia”. Qui il desiderio di immortalità è fin troppo chiaro. Ma, secondo Weiss, esistono le prove che questo senso di responsabilità, socialmente commendevole, non è sempre il principale e reale desiderio del cliente potenziale. A quanto sembra, sarebbe vero per molti uomini, ma non per tutti. “In parecchi casi – proseguì Weiss – i nostri test di proiezione rivelarono che il soggetto desidera l’immortalità per poter controllare la famiglia anche dopo la morte. Questo tipo d’uomo si premunisce contro il pericolo dell’obliterazione¹ assicurandosi di poter continuare a dominare la propria famiglia; a determinare il tenore di vita della famiglia e a guidare l’educazione dei figli molti anni dopo la propria scomparsa”.
A questo punto il dottor Weiss si domandava come dovesse operare la pubblicità per garantire a questi due tipi di clienti il genere di immortalità da essi cercato. In altre parole, come si poteva promettere contemporaneamente protezione e controllo senza scontentare l’uno o l’altro dei due tipi? Questa è la risposta: “La pubblicità darebbe migliori risultati se tenesse conto soprattutto dei problemi emotivi del cliente, anziché illustrare la tranquilla esistenza dei sopravvissuti“. E raccomandò che, mostrando la serenità e l’unità dei sopravvissuti, gli assicuratori avessero cura di ricordare sempre, graficamente o nel testo, la “vivente personalità” del defunto. Non soltanto egli doveva essere presente nel cuore della famiglia, “ma lui, e lui solo, è l’eroe – colui che in eterno protegge, nutre, conforta e governa“.

V. Packard, I persuasori occulti, Einaudi, Torino 1989, pp. 68-79


  1. Obliterazione = cancellazione, oblio della propria immagine.

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